di Fabio Galli
È morto in silenzio, come uno dei suoi attori in scena, quando il tempo sembrava dilatarsi e lo spazio diventare luce.
Robert “Bob” Wilson non era un semplice regista: era un architetto del visibile, uno scultore del silenzio, un pittore del buio. L’arte lo chiamava da ogni lato: danza, opera, pittura, design, suono. Lui rispondeva con spettacoli che non raccontavano storie nel senso classico, ma le suggerivano, come se il teatro stesso diventasse sogno.
Dalla provincia texana, Waco, fino ai templi dell’arte europea, aveva portato con sé la sua timidezza innata e la sua ossessione per la precisione. Nei primi anni Settanta, quando il teatro americano era ancora impregnato di realismo e ribellione, lui fece una cosa che nessuno aveva il coraggio di fare: rallentare tutto. Fermare l’azione, togliere il dialogo, lasciare che la luce respirasse. Spettacoli come Deafman Glance, realizzato con un bambino sordo, spezzavano le convenzioni narrative: non si raccontava più “cosa accade”, ma “come accade”, e in quel “come” entrava l’universo intero.
Con Einstein on the Beach (1976), realizzato con Philip Glass, creò un’opera-mondo: quattro ore e mezza senza intervallo, un flusso ipnotico di numeri, treni, luci al neon e un violino che ripeteva lo stesso accordo come un mantra. Il pubblico, abituato alla trama, usciva stordito e felice, come chi vede per la prima volta un orizzonte senza confini.
Wilson fu anche uno dei primi a pensare al teatro come installazione: The Life and Times of Joseph Stalin, the CIVIL warS, KA MOUNTAIN and GUARDenia Terrace (sette giorni consecutivi su una montagna iraniana!) erano esperienze totali, in cui lo spettatore diventava parte integrante dell’opera.
Il suo Watermill Center, rifugio e laboratorio per artisti a Long Island, resterà il monumento vivo al suo pensiero: un luogo dove luce, corpo, voce e paesaggio si fondono, dove i giovani creatori imparano che il teatro non è fatto solo di battute, ma di respiro, di ritmo, di pura presenza.
E se in Italia lo amavano – dalla Scala a Firenze, da Napoli al Piccolo – era perché Wilson aveva saputo cogliere la grande lezione della nostra tradizione visiva: la composizione rinascimentale, la profondità caravaggesca, la plasticità barocca. Ma aveva saputo piegarla, con il suo minimalismo americano, a un’idea quasi zen del palcoscenico.
Oggi Bob Wilson se ne va a 83 anni, lasciando il teatro orfano di una delle sue voci più visionarie. Se l’avanguardia spesso diventa moda, la sua no: la sua è rimasta necessità, radicalità vera, perché fatta di silenzio e di luce, e il silenzio e la luce non invecchiano.
(31 luglio 2025)
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