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Guardare l’invisibile. Basaglia, la fotografia e la rivolta della dignità

di Fabio Galli 

Non si entra in questa mostra come si entra in una mostra qualunque. Si viene piuttosto attraversati. Prima ancora di leggere un nome, una data, un titolo, ci si sente chiamati in causa da una materia che non è solo visiva, ma morale, politica, emotiva. Al Museo di Santa Chiara di Gorizia, fino al 3 maggio 2026, prende forma “Franco Basaglia. Dove gli occhi non arrivavano”: un’esposizione che non racconta solo una storia, ma riapre una ferita ancora viva nella coscienza collettiva. Al centro, la figura di Franco Basaglia, ma soprattutto le vite che ha restituito al mondo. Attorno, tre sguardi fotografici che non si limitano a documentare, ma interpretano, interrogano, riscrivono il senso stesso del vedere: quelli di Gianni Berengo Gardin, Raymond Depardon e Ferdinando Scianna.

Qui la fotografia non è mai puro repertorio. È un atto politico silenzioso, una lama che incide la rimozione, una forma di resistenza allo sguardo che scivola via. Le immagini ci costringono a sostare. Non permettono la distanza rassicurante dell’osservatore neutro. Ogni volto ci guarda, ogni gesto ci interpella. Non sono “malati”, non sono “casi”, non sono “internati”: sono persone, corpi, esistenze che reclamano un nome, una storia, una dignità. La rivoluzione di Basaglia non passa dai proclami, ma da qui: dal riconoscimento dell’altro come soggetto, non come oggetto di cura.

La struttura della mostra è pensata come un percorso lento, quasi iniziatico. Le sale non dispongono le fotografie secondo una cronologia rigida, ma secondo un ritmo emotivo. Si entra nel buio delle architetture manicomiali, nelle geometrie chiuse dei corridoi, nelle stanze spoglie che sembrano negate persino al tempo. Le fotografie di Depardon costruiscono la scena della reclusione: spazi che parlano prima ancora degli individui, muri che raccontano la pedagogia della segregazione, finestre che promettono una luce sempre rimandata. È un mondo che sembra immobile, e invece sta per cedere.

Poi arrivano i volti. Qui lo sguardo di Berengo Gardin è implacabile e compassionevole insieme. I suoi ritratti non cercano l’effetto, non indulgono nell’estetica del dolore. Registrano. Fermano un istante che diventa eterno: uno sguardo perso, una postura contratta, una mano che sembra chiedere qualcosa senza osare dirlo. Ma dentro quella sospensione accade la rivelazione più potente: la sofferenza non cancella l’umanità. Anzi, la rende più esposta, più vulnerabile, più vera.

Con Scianna entra una luce diversa, meno frontale, più allusiva. Il suo lavoro porta nella mostra una vibrazione ulteriore, quasi una sottotraccia poetica. I corpi si fanno più mobili, lo spazio sembra respirare, lo sguardo non è più soltanto catturato, ma restituito. Non è una consolazione estetica, è una soglia: il momento in cui il dolore smette di essere solo materia da denuncia e diventa racconto, possibilità di relazione, apertura.

Ciò che rende questa esposizione radicalmente necessaria non è però solo la qualità dei singoli sguardi, ma il loro incontro. Per la prima volta, le opere di questi tre fotografi vengono messe in dialogo diretto attorno all’eredità basagliana. Ne nasce un racconto polifonico che non cerca una sintesi pacificata, ma una tensione continua tra documento e interpretazione, tra cronaca e visione, tra testimonianza e responsabilità.

Gorizia, in questo racconto, non è sfondo neutro. È un luogo simbolico, una città-laboratorio, un punto di frattura nella storia italiana. È qui che la follia smette di essere una colpa e torna a essere una condizione umana. È qui che il manicomio comincia a sgretolarsi non solo come edificio, ma come dispositivo mentale. Le fotografie ci mostrano questa transizione con una precisione quasi crudele: non c’è trionfalismo, non c’è redenzione facile. C’è un processo lento, faticoso, contraddittorio. Ma irreversibile.

Il cuore politico della mostra batte nella memoria della Legge 180, che nel 1978 abolì i manicomi in Italia. Ma qui la legge non è mai astratta. È incarnata nei corpi che vediamo, nelle posture che cambiano, negli sguardi che, a poco a poco, si rialzano. La riforma non appare come un gesto burocratico, ma come una mutazione antropologica: cambia il modo di pensare la cura, l’errore, la devianza, la fragilità.

Chi attraversa queste sale non può restare intatto. La mostra non concede vie di fuga estetizzanti. Non consola. Non semplifica. Costringe a fare i conti con una domanda che resta sospesa ben oltre l’uscita: che cosa abbiamo fatto, e che cosa stiamo facendo, degli esclusi? Quanto di quella segregazione sopravvive oggi sotto altre forme, più sofisticate, più invisibili, forse perfino più efficienti?

“Dove gli occhi non arrivavano” è un titolo che funziona come una ferita aperta. Perché lo sguardo, da solo, non basta. Serve una responsabilità. Serve una presa di posizione. La fotografia, in questa mostra, non è mai innocente: è chiamata a scegliere se essere strumento di controllo o di liberazione. E qui sceglie, senza ambiguità, la seconda via.

Basaglia emerge così non come un’icona eroica, ma come un pensatore scomodo, un uomo che ha messo in crisi non solo la psichiatria istituzionale, ma l’idea stessa di normalità su cui una società si fonda. Le sue battaglie parlano ancora al presente perché non riguardano solo i manicomi di ieri, ma tutte le forme di esclusione di oggi. Il suo lascito non è un monumento: è una domanda che chiede continuamente di essere riaperta.

Alla fine del percorso non si esce alleggeriti. Si esce più esposti. Con una consapevolezza che pesa, ma che illumina. Le immagini restano addosso come un deposito silenzioso. Non si limitano a essere ricordate: agiscono. Ed è forse questa la vera vittoria di questa mostra. Non commuovere, ma trasformare. Non intrattenere, ma inquietare. Non celebrare, ma continuare, nel presente, quella rivoluzione fragile e ostinata che ha rimesso al centro, una volta per tutte, il diritto irrinunciabile alla dignità.

 

 

 

(30 novembre 2025)

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